Ultimo ciclo di capecitabina.
Lo inizierò domani e lo finirò venerdì 17 maggio. Poi basta: terapie terminate. Visite di controllo ed esami diagnostici, quelli saranno per sempre frequenti e regolari. Ma le granate chemioterapiche, tutte quante – quelle in vena, quelle in bocca, e pure la radioterapia, tutte le terapie che mi hanno cambiato l’aspetto, la vita e un po’ pure la mia essenza – stanno per finire. È possibile che sabato 18 mi venga voglia di festeggiare la fine di un anno di cure.
La terapia per bocca, a base di proiettili giornalieri di capecitabina 500 + 150 mg, ha chiuso con sobrietà il corteo di farmaci pesanti che hanno attraversato in lungo e in largo il mio corpo da aprile dell’anno scorso finora. Vuoi che insorga un ultimo effetto collaterale proprio adesso, durante il ciclo finale, a un passo dal traguardo? No, dai. Ho schivato perfino l’eritrodisestesia palmo-plantare, sfiorandola appena con un leggero formicolio alle mani.
La mia oncologa mi ha visitata questa mattina (quante volte l’avrò vista in un anno? Quanti vocali Whatsapp ci siamo mandate?): l’ultimo controllo per l’ultima terapia. Me la sono cavata bene. Cioè, i miei globuli bianchi se la sono cavata bene, io meno.
Il mio corpo è più forte di quanto prima pensassi, l’ho scoperto solo in tutti questi mesi sotto fuoco: è stato colpito, avvelenato, intossicato, crivellato, bucherellato, tagliato, ricucito, irradiato, ma non è affondato. Probabilmente, mi dico, ho ereditato da mia nonna Agnese la capacità di resistenza fisica e da mia nonna Santina la tigna, il muso duro.
Il mio animo invece sì, è crollato più di una volta. Quello non è tanto gagliardo e nerboruto, soprattutto quando viene assediato nello stesso istante da più lati (e la salute e il lavoro e le finanze e l’amore e un trasloco da fare e… lo diceva meglio Anna Marchesini: “… e dolore… e lacrime… e paura… e silenzio… e strage… e ansia… e angoscia e…“).
Che anno lunghissimo, è stato.
Quanti giri tra Abruzzo, Marche e Lombardia; quante ore cumulate in ospedale; quanti buchi nelle braccia; quanti referti imparati a memoria; quanto odore di disinfettante nelle narici; quanti frammenti di me lasciati all’analisi e alla ricerca scientifica; quanti dolori e madonne (sì, pure quelle); quanti momenti che apparivano insuperabili e invece no – ci si abitua proprio a tutto, si supera davvero tutto; siamo stati progettati per restare in vita il più a lungo possibile, pur malconci o un poco avviliti. Ma quanto è alto, il costo dell’adattamento.
Mi fossi mai fatta un complimento da sola, per come ho affrontato l’esperienza della malattia. Non ci ho visto nulla di eroico, nessuna epica della sofferenza, nessun valore. Non si ceda spazio a sentimentalismi e autocelebrazione; non c’è gloria alcuna in oncologia: solo culo.
“Vivo sempre insieme ai miei capelli…” e adesso pure senza Paul Auster
Nei capelli si è concentrata tutta la mia amarezza, ora. Di notte, sogno di averli lunghi e lisci com’erano prima della chemioterapia, li pettino, li annuso, li lego, li sciolgo, ci gioco. Di giorno, consumo flaconi di schiume e gel e lacche per governare i ricci ricresciuti, folti e indomiti (tignosi pure loro).
Solo la morte di Paul Auster mi amareggia più di questo. Paul Auster, lo scrittore americano che ho letto e amato di più dopo John Fante, è morto lo scorso 30 aprile, a 77 anni, per un cancro ai polmoni.
Nel suo Diario d’inverno aveva scritto:
Per ogni cicatrice c’è la traccia di una ferita sanata, e ogni ferita era stata provocata da un’inattesa collisione con il mondo – cioè da un incidente, o da qualcosa che non doveva necessariamente accadere, perché un incidente per definizione è qualcosa che non doveva accadere per forza. La contingenza opposta alla necessità, e la presa di coscienza, mentre ti guardi allo specchio stamattina, che la vita è tutta contingenza, salvo l’unico fatto necessario che prima o poi finirà.
Paul Auster, Diario d’inverno, traduzione di Massimo Bocchiola, Einaudi 2012, pag. 6
Quasi ogni giorno, comunque, mi sento dire: “Guarda che con questo look stai benissimo!”. Ancora non avete capito che davanti a una donna che ha perso la bellezza originaria dei suoi capelli, muti dovete stare.