carte-scoperte

Quinto ciclo di capecitabina in corso.

È il penultimo. Finirò a maggio. Poi non so. Ci saranno senz’altro visite ed esami di controllo a tempo indeterminato – pare che le recidive del mio tipo di cancro siano una temibile probabilità.

«Dare i numeri»

Sono passati:

Ho raccontato tutto: tutto ciò che riguarda l’esperienza della malattia, delle cure, della quotidianità di un paziente oncologico in terapia. Non ho raccontato tutto. Se l’avessi fatto, l’intero progetto di PinkInk Series sarebbe stato anche più interessante, forse. Come scrivevo in un post di agosto scorso, infatti, non c’è mica solo la malattia nella vita di una persona malata. Scrivevo:

Possono accadere, nello stesso anno, eventi concomitanti che insieme creano una sinergia di strazi perfetta, ineguagliabile come un disegno divino: che so, un lutto in famiglia, la malattia di un figlio, la perdita di una casa o di un lavoro, un amore disgraziato, un divorzio, un trasloco, un problema economico, … ma anche soltanto una vita troppo “normale”, una routine sottilmente smorta o, al contrario, una routine troppo affannosa – ché ammazzano pure quelle, solo in modo meno visibile.

Ecco. È così che mi è andata.

L’amoralità della buona scrittura

La verità: avrei trovato narrativamente avvincente l’intero mio materiale di vita da usare per la scrittura, ma avrei danneggiato persone, violandone le vicende personali. Gli scrittori lo fanno, usano la vita propria e altrui, saccheggiano tutto: William Faulkner, in una meravigliosa intervista del 1956 pubblicata su Paris Review che mi piace sempre ricordare, dichiarò che il bravo scrittore è completamente amorale in ciò che ruba, prende in prestito, elemosina o sottrae a chiunque pur di completare il lavoro.

Le sue parole:

He is completely amoral in that he will rob, borrow, beg, or steal from anybody and everybody to get the work done. […] The writer’s only responsibility is to his art. He will be completely ruthless if he is a good one. He has a dream. It anguishes him so much he must get rid of it. He has no peace until then. Everything goes by the board: honor, pride, decency, security, happiness, all, to get the book written. If a writer has to rob his mother, he will not hesitate; the “Ode on a Grecian Urn” is worth any number of old ladies.

William Faulkner, The Art of Fiction No. 12, Interviewed by Jean Stein, ISSUE 12, SPRING 1956, in «Paris Review»

Ma questo, – depredare la vita, – lo poteva Faulkner perché era Faulkner.

Lo possono fare, e lo fanno, gli scrittori e le scrittrici che scrivono e pubblicano romanzi, quelli belli belli che piacciono a me. E neppure loro, comunque, sono salvi da inconvenienti legali e impicci domestici: l’ex moglie di Emmanuel Carrère, scrittore con un debole per il memoir e l’autofiction, ha avuto di che lamentarsi quando ha scoperto che il marito aveva raccontato un po’ di fatti loro nel suo romanzo Yoga (traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, Adelphi 2021), romanzo peraltro bellissimo. Già in un altro suo libro, Vite che non sono la mia (traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio, Adelphi 2019), Carrère aveva accennato a un inizio di crisi coniugale.

Insomma: non c’è mai da fidarsi di chi, per mestiere, scrive.

Vite che sono la mia

Il fatto è che qui non c’è gente come Faulkner e Carrère (e tanti altri, siano benedetti sempre). Qui c’è un blog di una che non può fare a meno di scrivere i cazzi propri raccontandoli bene, basta. Vero che quest’una si guadagna da vivere scrivendo, perché di mestiere più o meno fa la copywriter, ma non pubblica romanzi né racconti. Quindi che fare, con la narrazione di fatti privati, poca fiction e molta non-fiction? Niente.

Peccato, perché il materiale a disposizione sarebbe stato – lo sarebbe ancora – davvero, davvero ricco di traiettorie, temi, direzioni, piani narrativi. Per esempio, che so, un matrimonio andato in frantumi e seguito da un’imminente separazione; un amore sconsiderato, improbabile e disgraziato; un problema finanziario; la depressione e l’epico disfacimento del personaggio protagonista. Non necessariamente in quest’ordine. Ora: crea il grande, potentissimo scenario di una malattia come un cancro, mettici dentro quest’altre vicende tristi che si svolgono in parallelo, tutte insieme, ed ecco del buon materiale per uno, due, tre romanzi. No?

No. Però magari un giorno, chissà. Il mio quasi ex marito me lo ha detto: «Hai materiale per scrivere il romanzo che non hai scritto finora». Perché un altro lo avevo scritto e finito, qualche anno fa, ma poi l’ho lasciato perdere. Tendo a lasciar perdere le cose, molte cose.

Il mio buon quasi ex marito, nel corso dell’ultimo anno, mi ha accompagnato a ogni visita, mi è stato vicino durante le terapie e durante l’intervento a Milano (dove ha preso anche un paio di multe per guida non autorizzata in area B), e lo ha fatto nonostante avesse solide ragioni per decidere di non farlo.

Di malattie, ne ho avute due.

Ma ne ho raccontata una soltanto, quella da eroina che «lotta contro il cancro», come piace dire a tanti di voi (a me no: non è una lotta e, come ho già scritto parlando della prossima Race for the Cure, nei reparti di oncologia e sui tavoli delle sale operatorie non ci sono guerriere né martiri, ci sono solo persone). Perché raccontare la storia del cancro era più facile, più comodo, più conveniente.

Adesso, inizio a guarire da entrambe, con tempi diversi.

La primavera con fatica è iniziata, l’estate è vicina, le giornate si allungano, c’è sempre più luce: è quasi ora di cambiare storia.