via-del-genio

«La TAC è pulita», mi ha scritto la mia oncologa l’altro giorno. Encefalo pulito, torace pulito, addome pulito, giusto quelle cistarelle ovariche di poco conto che stanno lì da sempre, «con calma rifarà una visita ginecologica». Che il mio cervello sia pulito, è la notizia più sorprendente e degna di nota. L’altra notte ho sognato che avevo i vermi nella testa, fuoriuscivano dalla tempia destra.

Nonna è morta di sabato mattina presto. Per stanchezza di cuore.

Aveva 85 anni, il corpo sfiancato, la mente appena meno vigile di sempre. «Buongiorno nonnina, come stai?» le chiedevo quando passavo a casa dei miei genitori a salutarla. «Io sto bene, – mi ha risposto lei fino alla settimana scorsa, – come stai tu piuttosto?». Mi vedeva arrivare col fiato corto, sfiancata dalle scale e dalla capecitabina. Sono al quinto ciclo, non manca molto alla fine della terapia.

Non le sembrava giusto, a mia nonna, che io a 42 anni avessi il cancro e lei niente, solo una decina di malanni dell’età – gambe gonfie, vene stufe, bronchite, aritmie cardiache e qualcos’altro che non mi ricordo. Ogni tanto faceva su e giù per il corridoio con il carello deambulatore, in mano aveva quasi sempre qualche banconota che mi chiudeva nel pugno come un segreto fra me e lei.

La torta con la crema di limone, le patate rosolate in padella, i calcionetti di Natale, i ravioli dolci di Carnevale, gli gnocchi: sono alcuni dei piatti che nessuno farà più uguali.

Già da anni, umiliata dal bisogno di assistenza, nonna aveva smesso di cucinare. Mia madre – sua figlia – ha provato con ammirevole buona volontà a riprodurre gli originali, ma niente. In particolare, le patate in padella: né fritte, né al forno, ma croccantissime e scrocchiarelle fuori, morbide e scioglievoli dentro. Il segreto era la padella giusta (quindi la sua), la giusta quantità di olio, e la religiosa immobilità delle patate: non vanno mai rimestate per tutto il tempo di cottura, solo ogni tanto una scrollata leggera dal manico della padella. Nessuno in famiglia sa farle così.

Nemmeno il lavoro a maglia: nessuno di noi cretini ha imparato. Maglioni di lana per l’inverno, canotte di cotone per l’estate, sciarpe, cappelli, armadi pieni di saggezza perduta, irriproducibile.

Ci ha lasciato un paio di scatoloni colmi di maglioncini per neonati (perché qualcuno nasce sempre, in famiglia, tra i vicini di casa, amici, conoscenti). Nonna ha provato più di una volta a insegnarmi a fare la maglia, ma io avevo un problema di talento e lei di didattica. Quindi niente: un altro sapere che il tempo si porta via.

L’ho osservata a lungo, ieri, all’obitorio. Che terribile usanza violenta, questa di rimanere sdraiati a mani incrociate, esposti allo sguardo dei vivi per uno, due giorni.

Mi sono avvicinata un bel po’ a mia nonna in obitorio, faccia a faccia. Le ho contato tutte le rughe e le macchie della pelle, gli ematomi procurati dalle ultime flebo dell’ospedale; le ho contato anche i denti macchiati di sangue perché la bocca è rimasta leggermente aperta. La freddezza e la durezza sono le due esperienze tattili che conservo dei miei baci sulla sua fronte e sulle guance, – sensazione di coccolare una scultura di marmo.

Oggi ci sarà il funerale, rito cattolico come piace alle nonne della sua generazione e un po’ ancora alle loro figlie: fiori che già da freschi odorano di camposanto, rosari e santini, ghirlande, fasce commemorative, rintocchi di campane, la messa, l’incenso, un coro mezzo stonato di canti e orazioni, e poi la sepoltura al cimitero accanto al marito morto cinquant’anni prima (mia nonna sapeva cos’era la lunga vedovanza, il colore più sfacciato che le ho visto addosso è stato un blu scuro per occasioni speciali). Riti e rituali che affascinano me e gli studiosi di antropologia.

Siccome nonna muore in un periodo assai cupo della mia vita, e siccome non sono credente, non ho preghiere da dire, ma solo carezze da farle e una specie di impulso matto di infilarmi dentro la bara con lei e farmici chiudere. Per riposarmi pure io, da questo ultimo anno e mezzo.

La casa in collina

Nonna mi ha prestato casa sua a Colonnella, l’anno scorso, poco prima che io iniziassi la chemioterapia più pesante, per dare spazio ai miei momenti di eremitaggio in collina e al bisogno di nascondermi, fare nuovi esperimenti di vita e trovare un ristoro (che non ho trovato). È un piccolo appartamento in paese, in un palazzo vecchio e cascante, arredato come sono arredate le case delle vedove anziane e devote. Lì ci ha vissuto tutta la sua vita da sola, finché è stata autonoma e prima di avere bisogno di essere assistita dai figli.

È una casa dove io sento ancora il profumo di cannella – ma lo sento solo io, le mie narici lo cercano e se lo inventano, per bisogno di conforto. Ci sono le caramelle per gli ospiti e il servizio buono dei bicchieri, le foto dei nipoti e dei pronipoti, le foto dei morti (più numerose), le immagini di San Gabriele e un vecchio calendario santo, qualche madonna qua e là (con bambino). È una casa di quel genere che si vede sempre meno. Perché pure le nonne nate fra il 1930 e il 1940 si vedono sempre meno.

Con la morte di nonna si chiude un altro ciclo, per me.

Anche la mia chemioterapia di mantenimento sta per finire, mi resta un ciclo e mezzo soltanto. Poi libertà? Non credo, ma un po’ di vita nuova sicuro. Controlli regolari e attese di referti, sì, ma il grosso è fatto, per ora.

Normalmente, a feste, cerimonie e funerali, qualcuno in famiglia finisce sempre col chiedermi di scrivere qualcosa, un discorso, un messaggio, una frase. Colpa di questa vecchissima storia secondo cui io so scrivere bene e mi viene facile. Questo, che mi viene facile, lo crede chi non scrive né ci prova. È solo per pigrizia che non si prova a scegliere parole proprie. Pigrizia, e mancanza di coraggio.

Ci vuole coraggio, a raccontare le cose.

E un’incredibile fede nella lingua scritta, l’unica fede che io mi ritrovo addosso.

Scrivetele da voi, le belle frasi di commiato.