21. giovannino perdigiorno

Giorno 130

Seconda serie di chemioterapia, ottavo ciclo di taxolo.

Tabula rasa: epifania della riscrittura.

Ieri sera, al ristorante con i miei amici custodi, ho preso il coraggio che mi serviva per togliermi per la prima volta il turbante in un luogo pubblico.

Sudavo per il caldo e l’umidità, sudavo per le vampate di calore violente causate dalla recente menopausa indotta dalla chemio; credo ormai di sudare anche il taxolo, gli antiemetici, i gastroprotettori e il cortisone. Trasudo parimenti malattia e resilienza, l’una ipotizzabile nel cranio spelacchiato e nei frequenti segni di affaticamento, l’altra visibile in eyeliner, mascara e rossetto rosso portati per dispetto e ripicca in un reparto di oncologia, durante un’infusione di chemio (“Che cazzo ti trucchi a fare?”. Per la foto di rito, no? Metti che ne esce una buona da tenervi come santino sul comò buono).

I capelli stanno ricrescendo in una neonatale lanugine rada, irregolare e sparsa a caso, che lascia però intuire la testa che avrò tra un paio di mesi e che, credo, terrò finché mi piacerà: rasata, comoda, eccezionale perché più inconsueta in una donna, e spesso comunemente percepita come mascolina.

Rasate erano le streghe, in segno di punizione prima del rogo; rasate erano le monache, prima di entrare in convento; rasate le bambine povere, che vendevano i capelli per soldi. Nel ‘900, rasate erano le donne per tortura, dolore, sopruso, disperazione. Poi, dagli anni ’70, la rivoluzione sessuale. Oggi, quando una donna si taglia i capelli: «Ma è successo qualcosa?»: la fine di un amore, di un lavoro, una crisi superata. Dai tempi di Sansone, del resto, tagliare i capelli è staccarsi da qualcosa di sé, perdere un pezzo d’anima. Sognare di radersi, per la Smorfia napoletana, rappresenterebbe la paura di una perdita dolorosa. Nei rituali d’iniziazione, da secoli, rasare i capelli accomuna tribù e culture in un gesto gioioso che simbolizza un nuovo inizio, il ritorno alla nascita e alla purezza.

Insomma: tanta interessante dietrologia narrativa.
Il mio caso è più semplice: i capelli mi sono caduti per una chemioterapia, li ho persi contro il mio volere, ora che mi stanno ricrescendo ho scoperto che il corto “a zero” mi piace e, già che mi ci trovo, lo provo. Sempre detto, fin dall’inizio, che il cancro è un’opportunità per tante cose.

Mia madre, forse impressionata dai racconti su come i capelli possano cambiare colore e consistenza quando ricrescono dopo una chemioterapia, afferma di aver colto in controluce una nuova insospettabile sfumatura rossiccia. «Può esse, ma’, – le ho detto – ‘sta chemio mi sta a da’ foco».

Un po’ di psicoterapia oncologica male non farà

Ho avuto il mio secondo incontro con lo psicologo oncologico inviato dalla Breast Unit AV5 dello IOM di Ascoli Piceno. È un servizio gratuito a disposizione dei pazienti, che possono usufruirne fino a un massimo di 8 incontri. Ciò significa che io ne farò altri 4 in concomitanza con le chemioterapie settimanali, poi andrò a trovarlo altre 2 volte in ottobre, prima dell’intervento. Magari gli porterò una delle crostate di mia madre, che fa crostate per le infermiere gentili del reparto. Non sarà, non è più, tempo di fragole, ma i frutti dell’autunno sono altrettanto virtuosi.

A., lo psicologo oncologico della Breast Unit, sembra molto giovane. Mite, parla con un tono di voce basso quanto il mio udito; a volte devo chiedergli di ripetere. Ha la faccia buona, e mi fa pensare a mio fratello.
Ho detto subito ad A., quando ci siamo conosciuti qualche settimana fa, che con la psicoterapia ho una buona familiarità da un bel po’, che non mi servivano un cancro e una chemio per avvicinarmi a uno psicoterapeuta, anzi: ne ho già un paio fuori dall’ospedale. Lui è il mio terzo.
Lui ha riso divertito e ha detto una cosa che mi è piaciuta. Ha detto che, se proviamo a rappresentare noi stessi e la nostra vita come una casa, un edificio con un’architettura complessa, e se un anno di calamità la fa crollare, l’intervento più intelligente e sano che si possa attuare è chiamare una squadra di architetti, ingegneri, manovali, artigiani edili, professionisti diversi per specializzazioni e competenze, per rimettere la casa in piedi. Quindi che c’è di strano, adesso, ad avere tre psicoterapeuti? Trovo adorabile, come gli psicoterapeuti, quasi sempre, ti offrano un’interpretazione gratificante e adulatoria delle tue azioni squinternate, per ricentrare il tuo ego, deresponsabilizzarti e fottertene del resto. Non si va in psicoterapia per questo?
[No, non mi vergogno di parlare di psicoterapia e di dire che attualmente ho tre psicoterapeuti: ha più problemi chi se ne vergogna, chi vive nel dominio quotidiano dell’imbarazzo].

Amuleti di oggi

Nonostante ne avessi tanti nuovi grazie ai regali recenti, per oggi ne ho con me uno, uno soltanto. Un libro che per me è molto importante.

Gianni Rodari, I viaggi di Giovannino Perdigiorno (illustrazioni di Desideria Guicciardini, Einaudi Ragazzi, 1980, Edizioni EL 2012)

Era già fra i miei amuleti al terzo ciclo di taxolo, in un riferimento più esiguo e acquattato nel post numero 16 della prima serie.

Chi non ha mai letto le filastrocche e le favole di Giovannino, faccia in modo di rimediare subito. Dopo averle lette, sarà una persona diversa e sorriderà più spesso, anche a occhi chiusi.

Giovannino è un bambino dolce che sa come sono fatti i sogni, e come crederci. È anche un esploratore esigente, coraggioso, ostinato, un po’ cavilloso e presuntuosetto. È uno che non si accontenta, anzi, diciamo pure che si picca facile: d’altronde, lui cerca “il paese senza errore”, dove tutto è bello e perfetto. Un posto dove restare, forse, a vivere il futuro.

Viaggia molto e a lungo per paesi e pianeti, e di popoli e costumi ne conosce tanti. Nessuno di questi gli va bene per il suo progetto, c’è sempre qualcosa o qualcuno che lo delude: c’è chi è troppo zuccheroso e senza sale in zucca; c’è chi è fatto di sapone e perciò, quando parla, gli escono di bocca solo bolle, “Il vento le fa scoppiare / silenziosamente… / e di tante belle parole / non rimane più niente“; chi è fatto di ghiaccio ed è quindi impossibile stargli vicino senza gelare. C’è il pianeta fanciullo, dove i bambini non crescono mai e “di diventare grandi non ne vogliono sapere: / così sono felici, / così vogliono rimanere…“. C’è il paese del «ni», dove la gente è timida un bel po’ e non dice mai chiaro né di sì né di no – questo fa particolarmente arrabbiare Giovannino, che ben presto si stufa e all’insulso paese dice tre volte no.

Giovannino se la rischia, corre pericoli, si danna, si scombina l’umore e la vita, perde cose, a volte si stanca – un desiderio smanioso come il suo richiede eccezionale impegno. Ma non si ammala mai. Non si ammala mai di tristezza perpetua, né di fifa paralizzante. Sa quello che vuole e sa andare avanti, sorretto solo dalla sua capacità di meravigliarsi ancora, alla ricerca del posto in cui vale la pena fermarsi a diventare grandi e invecchiare bene.

Ecco la filastrocca che rileggo oggi e che mi risuona in testa:

Giovannino Perdigiorno
ha perso il tram di mezzogiorno,
ha perso la voce, l’appetito,
ha perso la voglia di alzare un dito,
ha perso il turno, ha perso la quota,
ha perso la testa (ma era vuota),
ha perso le staffe, ha perso l’ombrello,
ha perso la chiave del cancello,
ha perso la foglia, ha perso la via:
tutto è perduto fuorché l’allegria.


“Di Salvatore Annalisa, nata 02/09/1981, Kg 57, H 1.65, Mq 1.62.
In data 23/08/2023 esegue 8° taxolo settimanale:
Sol. fisiologica 100 ml + Pantorc 1 fl in 20′ – Sol. fisiologica 100 ml + DECADRON 8 mg in 15′ – Sol. fisiologica 100 ml + TRIMETON 10 mg (1 fiala) in 15′ – Sol. fisiologica 100 cc + Ondansetron 1 fiala in 20′ – TAXOLO 120 mg (80 mg/mq approssimato) in 250 ml sol. fisiologica (durata infusione: 1 ora) da utilizzare con l’apposito set di infusione (non impiegare materiali in PVC: agocannule, connettori). Un infermiere deve essere sempre presente e il medico nelle immediate vicinanze”.

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