14. vince chi molla

Giorno 82

Venerdì 7 luglio: seconda serie di chemio, secondo ciclo di taxolo.

Ho sempre amato variazioni e novità: stimoli attivanti, eventi inconsueti da osservare, esperienze nuove da vivere. Delle cose io mi annoio presto e sono sensibile all’inedito.

Di inedito c’è che il taxolo, protagonista di questa seconda parte di chemio, non mi procura la mucosite alla gola e la stipsi come hanno fatto le precedenti terapie a base di epirubicina e ciclofosfamide. No: questa è la stagione del reflusso gastrico.

A conservare un filo con il passato, di cui sono sempre stata nostalgica estimatrice, provvedono i dolori acuti alle ossa e ai muscoli, lo spossamento costante, e il ritorno di un grande assente in questo mio teatro della malattia: il mal di testa, che non avevo più avuto dall’inizio della chemio (“del percorso”, come piace dire ai medici, agli psicoterapeuti, e a chi il percorso non se l’è mai fatto).

Numerosi, nuovi e gagliardi sono stati gli eventi fra il primo e questo secondo ciclo di taxolo. Sono troppo annebbiata ed esausta per individuare quello con il maggiore potere narrativo.
Perciò, ecco qualche appunto alla rinfusa:

1. Una corsa notturna al pronto soccorso

In ambulanza a sirena accesa, per un imponente reflusso gastrico scambiato per imminente infarto.

[“Muoio così, dunque? Finisce qui, la vita mia, con me in mutande che faccio le raccomandazioni ai miei cari, il cranio pelato, e il cornicione irresistibile e indigeribile di una pizza napoletana che da ieri sera ancora mi lievita nell’anima?“].

Sdraiata su un lettino scomodo nella stanzetta del pronto soccorso, fra medici infelici e tirocinanti assonnati del turno di notte, la mia attenzione si è rivolta per tutto il tempo a una scritta col pennarello sul muro, proprio sopra l’attaccapanni. Diceva: “attaccapanni”. Dai dettagli, si possono intuire tante cose della vita dentro al pronto soccorso di un modesto ospedale di provincia.

2. Una visita dall’otorino

Richiesta dalla mia oncologa allo scopo di valutare i danni alla gola e alle corde vocali lasciati dalla mucosite che ha dominato la scena nella prima parte della storia. Nessuno permanente, tanti piccoli temporanei “in linea con il quadro clinico di un paziente oncologico in terapia“: candidosi orofaringea, distrofie delle mucose geniene e nasali, lingua impaniata, laringite posteriore, … Tutte piccole dolorose rotture di palle, ma in linea.

3. Il referto di una consulenza genetica

Sempre richiesta con piglio smanioso dalla mia oncologa. La consulenza genetica serve a formulare ipotesi sulle mutazioni che il mio cancro potrebbe avere in futuro, se in futuro guarisco: con quali percentuali di possibilità mi ammalerò di nuovo, e a quali organi a partire da quello ammalato? [“Esito del test: non informativo. Negativo ai geni BRCA1 e BRCA2, sì, ma noi scienziati non siamo mai del tutto convinti, perciò riprenderemo il campione di sangue della paziente e il nostro disegnino a penna del suo glorioso albero genealogico, e passeremo l’estate a indagare su altri due geni molto molto rari, il PALB2 e il CHECK2. Ne riparliamo a settembre”. Va bene, a settembre, ma poi mi darete il disegnino del mio albero genealogico da attaccare sul frigorifero, promesso? Ci tengo].

4. L’evento eccezionale di oggi, però, è il “loop”

L’epico e memorabile loop del mio PICC, il catetere venoso centrale che porto al braccio dal 14 aprile. Portavo, non porto più. Oggi mi è stato rimosso inaspettatamente e d’urgenza, perché una TAC, fatta per cercare una cosa, ne ha trovata un’altra: un loop del PICC, appunto, in vena succlavia.

Il loop è un caso rarissimo di attorcigliamento del tubicino che mi percorre dal braccio al cuore, e che ogni settimana si presta a far passare sia il sangue che deve uscire da me per i regolari controlli, sia soprattutto la chemio che deve entrare in me per il regolare e incontrollato sterminio.

Per cause ancora tutte in corso di indagine nella letteratura scientifica, il tubicino del PICC può “andare in loop”, cioè formare un ricciolo, e far rischiare al paziente una trombosi folgorante. Un finale davvero misero e umiliante per il paziente, che non muore di cancro, ma di uno dei tanti difettucci della chemioterapia [Ma nemmeno la soddisfazione di morire da eroi, mannaggia? Io volevo cadere sul campo, con onore. Lo dice anche la Butterfly prima di trafiggersi con il pugnale rituale: “Con onor muore chi non può serbar vita con onore”. Ecco, io voglio dire frasi come questa, non “Cazzo, la trombosi!”].

Lo svantaggio di non avere più il PICC, che avrei dovuto tenere fino al termine della chemio a fine settembre, è che avrò le vene buone delle braccia crivellate dai buchi settimanali (a meno che non si rimedi con un mini-midline). I vantaggi di non avere più il PICC, dopo questi primi 13 post di PinkInk Series, occorre dirli? Se sì, rileggetevi i post precedenti della serie, ché io ho il cancro e non posso perdere tempo.

Amuleti per la chemio di oggi:

1. Nuova t-shirt, dipinta a mano

Una creazione di Vin Gal, che oggi indosso per mettermi sul petto la spensieratezza dei pesci che nuotano svagati e incoscienti (penso, anche se c’entra poco, al discorso che David Foster Wallace tenne ai laureandi del Kenyon College nel 2005. Si intitola Questa è l’acqua ed è pubblicato da Einaudi insieme ad alcuni racconti. Leggetelo).

L’ho ricevuta proprio ieri in regalo da Romina, ex compagna di università. Sono passati vent’anni dai nostri studi di Lettere a L’Aquila, lei classiche, io moderne: neve, gelo e freddo straziante; la libreria Colacchi e il Bar Tropical vicino Palazzo Camponeschi, il Punto Einaudi animato da Nicoletta Rugghia e Loredana; le case dubbie, umide e sgarrupate degli studenti figli di impiegati; libri ed esami tanti, piatti di pasta alla buona, birre economiche, l’autobus alla Fontana Luminosa (in un tempo in cui non faceva ancora troppo specie dire “la corriera”), e un professore di letteratura latina che è stato croce e delizia della nostra meglio gioventù, lo studioso di metrica più appassionato e umile mai conosciuto di persona e il docente più rigoroso mai più incontrato nella mia vita da studentessa, nemmeno nei corsi post-lauream. Poi l’amore giovanile, la vitalità pulsante, i sogni pretenziosi, il futuro e la speranza. Mi manca tutto, di quegli anni.

Grazie, Romina.

2. Calzini

Cocomeri. O angurie, secondo dove uno vive (io vivo dove si dice “cocomero”, anzi “cëtrò”). Il mio omaggio stagionale all’estate di cui non mi sto godendo un cazzo. Ho anche le mutande coordinate, ma quelle le mostro solo alle infermiere, e a qualche vetusta compagna di chemio che apprezza l’ironia.

3. Borsa di tela di Cose Brutte Impaginate Belle

Sulla borsa c’è scritto: “Affronto la vita come se la cosa non mi riguardasse“.

Era parte di un regalo di Natale, o forse di compleanno, dei miei amici custodi Fabio ed Enrica, che sanno sempre come io prendo le cose. Da prima.

A chi mi chiede “Ma tu come stai?” e vuole (e merita) una risposta consistente, racconto questo:

Alla vigilia della chemio, qualche mese fa, i miei amici custodi Fabio ed Enrica mi regalarono “la scatola della rabbia”. Conteneva tutti i vecchi cocci che erano riusciti a radunare dalle loro rispettive case, con l’aiuto di moglie e marito: tazzine sbeccate, piattini spaiati, cornici mezze rotte, perfino un vecchio cellulare inservibile. Erano tutti per me. Da spaccare, come spiegavano i bigliettini che li accompagnavano, in ogni momento in cui avrei avuto bisogno di esprimere la rabbia.
Non ero sicura che avrei avuto questa necessità – di solito, sono riluttante a manifestare la rabbia con un linguaggio gestuale invece che verbale. Ma il solito di prima non c’è più, per tante cose.
La mia scatola della rabbia, adesso, è quasi vuota e ho chiesto la ricarica. Ho giusto un muro del garage con un po’ di sfregi e scrostature, ma che fa?

Sono abbastanza a posto, adesso e per ora. Sfinita, ma a posto.
Lascio tutto fluire, come in una canzone preziosa di Niccolò Fabi, uno dei cantautori più raffinati che abbiamo al momento in Italia. Si chiama “Vince chi molla”.
L’ho ascoltata molto, oggi. In loop.