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Antonella è una donna abruzzese più forte che gentile. Nativa di Colonnella, vive in un paese costiero delle Marche basse. Femmina sanguigna, temperamento terroso che nasconde un tesoro di delicatezze riservate a pochi.

Ha 58 anni, è madre di Maria Cristina, nonna di Noah, orfana di padre dall’età di 8 anni.
Operosa impiegata amministrativa dal 1983, nel resto del tempo si prende cura insieme al marito Angelo della loro campagna: l’orto, il frutteto, l’uliveto, qualche gallina per le uova buone. Quasi tutto ciò che mangiano in famiglia è autoprodotto.

All’inizio del 2017 – un gennaio di freddo e gelo sull’Adriatico, – Antonella incontra per la prima volta il suo cancro al seno sinistro: carcinoma lobulare infiltrante multiplo G2.
«Infiltrante – mi spiega – è come un fiore che allarga i petali». Un fiore che allarga i petali, mi dice proprio così, e con la mano chiusa a pugno fa il gesto di aprire e stendere le dita. Vengo colpita da questa immagine. Seni di donna, fiori e alberi sono legati da secoli di iconografia; l’estetica del seno nella storia dell’arte è tutto un fiorire fino a oggi, epoca glamour di Body Painting.

Comunque, è subito quadrantectomia: via un quadrante, un pezzetto soltanto, giusto il boccone di carne che basta. Ma ci vuole poco a capire che no, non basta, c’è da tagliare di più, molto di più.

Antonella, però, ha un’urgenza più importante: avere forza nelle braccia per avvolgere il nipote Noah, che nasce il 19 marzo 2017. Bene, Signori Chirurghi, adesso potete mutilarmi come vi pare: ad aprile, mastectomia radicale a entrambi i seni, ricostruzione immediata, protesi.

Per cinque anni, pane e Anastrozolo tutti i giorni, una compressa da 1 mg. Le ossa fanno male, ma Antonella conosce già il dolore cronico nel corpo: il primo della sua vita si chiama fibromialgia e la abita da tanto tempo.

Nel 2018, il seno sinistro s’affloscia, s’asciuga, si deforma, fa le grinze, diventa buccia di mela vizza: rigetto della protesi, allarme, si torna in sala operatoria per la sostituzione. Nel parapiglia di decisioni e buone intenzioni, si perdono notizie del capezzolo: la mammella ne resta sguarnita, giusto un alone più scuro a memoria di un’anatomia perduta.
Nuovo programma: fisioterapia e riabilitazione del braccio, dieta per perdere i venti chili maturati con la terapia.

Passa un altro anno di strazio e resistenza.
Per Natale, Antonella porta il suo anello Trilogy da un orefice e ne ricava i brillanti da incastonare negli anelli che regala a tre giovani donne della famiglia: sua figlia e due nipoti. Ai maschi niente.

Quando le chiedo qual è la prima cosa che ha provato quando ha saputo di avere il cancro, Antonella mi risponde con un ringhio roco: la rabbia. Mentre mi parla della sua furia di quei giorni, fatta di urla sotto la doccia e silenzi di fronte al mare, io la osservo con curiosità e un po’ di invidia: la rabbia è un’emozione che conosco poco, un veleno da cui sto perlopiù alla larga perché non saprei dosarlo, temo, senza rimanerne soffocata. Ci vuole, un po’ di rabbia, ci vuole questa sensazione scomoda e preziosa che aiuta a comunicare, a proteggerci, manifestarci.

«Hai mai avuto paura di morire?», le chiedo. Mi guarda dritto negli occhi e le vedo passare una luce fiera nello sguardo. Mi risponde così: «Io non ho paura di morire. Ho paura di soffrire fisicamente. Per il resto, non mi dispiace se me ne vado: mi addoloro per chi resta».

Antonella è guarita.

Viaggia molto insieme al marito e si stupisce del mondo, fa spesso colazione al bar e aperitivi la sera, lavora ancora con impegno ma si prende i suoi tempi, prepara conserve e marmellate, ama la moda e si veste sempre bene, fa la nonna di Noah, che oggi ha 6 anni, e se ne riempie le braccia.

Ha scelto di partecipare al Kintsugi Project con la sua testimonianza perché ci sono donne che invece non lo faranno: c’è una massa silenziosa di occhi che leggono e voci che non parlano.

«Conoscere altre storie – mi dice Antonella, – forse può aiutare a ripensare la propria, a parlarne, e anche a promuovere il ruolo della prevenzione tra le donne sane. Meno pudore, più condivisione».

Io dico anche: meno fardello, più leggerezza; meno pietismo, più narrazione. Storie come ciliegie, basta iniziare dalla prima, raccontarne una ne tira un’altra; organizziamoci in un moderno Decameron di novelle intorno al fuoco, una tazza di tè e biscotti fatti in casa. Salviamoci insieme con l’umorismo e la fantasia, l’ironia e l’autenticità.

Per la parte corale del Kintsugi Project, ho deciso di cominciare dalla storia di Antonella. Antonella è mia zia, sorella di mia madre. Da lei ho ereditato l’irrequietezza, i pensieri storti, il gusto per gli oggetti belli, l’indole balzana, il cancro al seno, e uno dei tre anelli di famiglia.

Nella foto che mi ha mandato c’è lei che lava le olive dell’ultima raccolta. È tempo di olio per l’anno che verrà.

La canzone che scelgo per mia zia mentre scrivo la sua storia è una pizzica salentina: Enza Pagliara, Frunte de luna. Tamburello, parole antiche, voce ancestrale di donna sciamana.

Kintsugi Project e Ottobre mese rosa

Ottobre è il mese della Campagna nazionale Nastro Rosa di Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro per sostenere la ricerca sul tumore al seno.

Ottobre, per me, è anche il mese del mio intervento di mastectomia.

È anche il mese in cui nasce il Kintsugi Project, che inaugura la seconda parte di PinkInk Series. La prima parte di PinkInk Series, invece, è dedicata ai mesi della chemioterapia.

Kintsugi Project: come farne parte

In queste settimane sto raccogliendo le testimonianze di altre donne che hanno o hanno avuto un cancro al seno. Queste testimonianze faranno parte del Kintsugi Project in ogni luogo in cui il progetto troverà accoglienza.

Grazie a chi ha già risposto al mio invito e grazie alle altre che si faranno avanti.