insight

Ieri, 4 febbraio, è stata la Giornata Mondiale contro il Cancro. Me ne sono accorta soltanto verso la fine della giornata, grazie a un post Instagram di Mariangela Palatini. Mi sono rivista così in una delle foto più belle che potrò mai conservare di me.

Mariangela è la Make-up Artist che mi ha truccato per le foto del Kintsugi Project scattate da Barbara Di Cretico a ottobre. Quel giorno Mariangela non si è limitata a truccarmi il viso: le è venuto in mente di dipingermi un fiore sul seno malato, il destro.

Era il 5 ottobre dell’anno appena passato, diciannove giorni prima della mastectomia e, al di sotto di quel fiore dipinto con tanta delicatezza sulla pelle, se ne stava acquattato quel che restava vivo e sadico del cancro: dopo sei mesi di chemioterapia neoadiuvante, io me ne andavo a spasso con tre millimetri di malattia ancora attaccati addosso. Cosa sono tre millimetri, dopo aver neutralizzato quattro abbondanti centimetri di massa tumorale a colpi di epirubicina, ciclofosfamide e taxolo? Non sono quel che si dice “niente”. Sono tre millimetri; zero è “niente”. L’intervento di mastectomia, il 24 ottobre, ha provveduto a una pulizia profonda e accurata, ma chi può dire quanta baldoria abbiano fatto nel frattempo quei tre mortiferi millimetri? Per questo, anche per questo, sto facendo un’altra chemioterapia. “Di mantenimento”, dicono.

Rispecchiamento (quella ero io?)

Oggi, a pranzo, guardavo svagatamente l’ultima puntata di una serie semplice e godibile che si chiama Modern Love. La protagonista dell’episodio è una donna malata di cancro al seno, ma non è questo il tema principale della puntata (né della serie); qui la malattia è soltanto una presenza accennata, ma solidissima, in poche scene. In una di queste scene c’è lei in vestaglia e capelli arruffati, convalescente a casa dopo l’intervento, e c’è l’ex marito che l’aiuta a medicare la ferita.

Non so come, mentre guardavo questa scena e mangiavo un piatto di riso in bianco seduta sul divano, mi sono ritrovata con gli occhi gonfi di lacrime. Saranno stati quei movimenti lenti e incerti di lei, fragile, stanca, mutilata di fresco; sarà stato quel piccolo taglio che nell’inquadratura si intravede appena; sarà stato lo sguardo sofferente ma composto e dignitoso dell’attrice (Sophie Okonedo). Sarà che nutro un affetto istintivo per chi sta in vestaglia a casa. Non so con precisione quale fotogramma mi abbia agganciato in profondità, ma mi sono sentita invasa da un inatteso sentimento, istantaneo, profondissimo, di tenerezza e compassione verso me stessa, oggi.

Insight: «Cazzo, ho il cancro!»

Pensandoci meglio, poi, mi sono resa conto di aver molto sottovalutato l’impatto emotivo che l’intervento di mastectomia ha avuto su di me, così come prima dell’intervento, durante i mesi di chemioterapia neoadiuvante, trascuravo le conseguenze psicologiche della malattia, di cui percepivo meglio la presenza guardandomi allo specchio, calva e un po’ pallida. Allora, avevo una specie di trasalimento e mi ricordavo ciò che sapevo: “Ah, cazzo, sì, è vero: ho il cancro!”. In me, a quel punto, trovavo incredulità e paura.

In psichiatria è chiamato Insight e indica il grado di consapevolezza di malattia, l’intuizione dei propri sentimenti, delle proprie emozioni e dei moventi del proprio comportamento.

Mi è successo un’altra volta in estate, mentre ero in buen retiro nella campagna di Mondo Piccolo, nella bassa parmense. Era una sera d’agosto caldissima e appiccicosa, camminavo in compagnia della Ros e di Ale, con cui stavo andando a mangiare tortelli a una sagra. Il giorno prima di partire in treno per Parma, avevo fatto un ciclo di chemio: sarà stato forse per questo motivo che mi sentivo un po’ fiacca? Di nuovo: «Cazzo, sì, ho il cancro!». Camminavo in mezzo ad altre persone, probabilmente in maggioranza sane (?), andavo alla sagra a mangiare i tortelli come loro, e questo mi sembrava prodigioso e incredibilmente bello.

Come se la cosa non mi riguardasse

Credo che uno dei motivi per cui sono riuscita a intravedere la possibilità di un progetto come PinkInk Series – che adesso è un blog, ma prima era una serie di post su Facebook letti da amici e conoscenti – è che non mi sono mai sentita malata. Non di cancro, almeno. Cioè, nel corpo mi ci sono sentita un bel po’, soprattutto quando la chemioterapia mi stendeva a letto, ma intendo dire che non mi sono mai identificata con la malattia. In tutta onestà, non sarebbe nemmeno la storia più dolorosa da raccontare del mio 2023 (ma, di certo, è sia quella con maggiore appeal, sia quella che fa di me un’eroina, un personaggio positivo e valoroso, ché mi piace vincere facile facile).

Quando ogni giorno mi spalmo la pomata Neo Viderm sull’eritema procurato dalla radioterapia; quando mi spruzzo l’olio secco spray Vea sulla cicatrice lasciata dall’intervento; quando avverto sotto le dita la consistenza dura e cartonata della protesi che mi riempie lo spazio interno della mammella altrimenti vuoto; quando la notte non riesco a dormire sdraiata su un fianco come vorrei perché la protesi mi fluttua di qua e di là; quando arriva improvvisa una fitta di bruciore fra l’ascella e il bicipite sgomberati dai linfonodi; quando ancora fatico ad allungare tutto il braccio sopra la testa, per esempio per prendere un libro sul ripiano più in alto della libreria, ecco, allora sì: realizzo, metto a fuoco, ho una specie di insight, che non è nemmeno più «Cazzo, ho il cancro!», visto che sono “tecnicamente guarita“, ma è «Cazzo, me la sono scampata!».

Comprendo, cioè, di essere una sopravvissuta. Almeno a questo giro.

Per la maggior parte del tempo, però, non ho percezione di questa salvezza, probabilmente perché ho avuto una percezione scarsa e intermittente del pericolo, nonostante, durante i momenti peggiori, abbia anche preso appunti per un’ipotesi di testamento olografo (non possiedo quasi nulla, ma i libri sono il primo bene a cui penso se mi chiedo che ne sarà delle mie cose).

È passato più o meno un anno dal giorno della diagnosi – sarà un anno esatto tra un paio di settimane. In questo giorno di un anno fa, il 5 febbraio, avevo soltanto l’esperienza tattile di uno strano nodulo che sentivo alla palpazione, i pensieri scombinati dalla vita che nel frattempo mi stava capitando, e un appuntamento fissato per un’ecografia la mattina dopo. Di uguale ad adesso, c’era solo che stava per iniziare Sanremo.

Kintsugi Project. Storie di donne-albero

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Ah, una cosa a cui tengo.

Ho iniziato a pubblicare le storie delle donne-albero, cioè storie di donne che hanno o hanno avuto un cancro al seno, lo scorso ottobre, poco dopo l’intervento.

Il progetto non è finito: ci sono ancora molte donne da incontrare, alcune un po’ lontane da dove abito. Di solito, le incontro nel soggiorno di casa mia, preparo una tisana, offro dei biscotti fatti in casa, metto un po’ di musica, accendo una candela. Poi parliamo, e io prendo appunti su un taccuino color verdementa.

Chi conosce e vuole bene al Kintsugi Project, lo racconti alle proprie persone.