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«Si chiama Gantry», mi risponde l’infermiera a cui chiedo il nome della macchina che sto guardando mentre mi spoglio. Non so perché penso a Interstellar, il film di Nolan in cui un gruppo di astronauti viaggia attraverso un buco nero in cerca di una nuova casa per l’umanità, un futuro possibile fra le stelle, ché la Terra è sempre più inospitale.

Due tecnici mi sistemano sul Gantry.

Trovo piacevole questa fase, perché non devo assecondare i loro sforzi di spostare il mio corpo, ma anzi è fondamentale che io stia, mi dicono loro, «a peso morto». Così, distesa sul lettino, rilasso i muscoli e loro, uno di qua e l’altro di là, mi sollevano una spalla, strattonano un braccio, muovono un fianco. Io sto lì, a peso morto, a farmi palpare e a godermi questa specie di massaggio che purtroppo dura pochissimo perché trovano sempre troppo presto la centratura perfetta del mio corpo rispetto al bersaglio.

Per chi abbia vissuto l’esperienza di 16 cicli di chemioterapia, una mastectomia radicale e una linfoadenectomia, cosa sono 15 cicli di radioterapia ascellare e sovraclaveare?

Gite. Sono gite.

Gite al centro commerciale vicino all’ospedale, per esempio, dove compro irrinunciabili cose superflue da Tiger. Gite a casa di amici che abitano nella zona, a mangiare il sautè di vongole, la pasta con le mazzancolle e le triglie all’arancia.

A casa di Rossella e Virgilio mi colpisce una trilogia di quadri tridimensionali, dono di un artista locale: un flusso di forme e colori brillanti che, dal primo al terzo e ultimo quadro, via via si restringe. L’opera, mi spiega lei, rappresenta le tre età delle vita. Un Klimt contemporaneo in plastica e plexiglass.

Anch’io penso allo scorrere della vita come a un restringimento, una strettoia, una specie di imbuto che riduce le possibilità.

Le braccia del Gantry mi girano intorno, percorrendomi all’altezza del seno. Emette suoni che mi ricordano quello di Braava, il robot lavapavimenti che abbiamo a casa: poco prima di spruzzare il detergente, Braava fa questo suono metallico qui.

Sul vetro di un braccio del Gantry che mi passa davanti agli occhi, qualcuno ha attaccato un’etichetta su cui è scritto a mano: “Non pulire il vetro”. Qualcun altro ha sentito l’esigenza di chiarire con un’ulteriore etichetta: “Non pulire il vetro trasparente”. Con lo sguardo vado allora alla ricerca di vetri satinati, che però non vedo. La magnifica presenza sguaiata e cretina dell’intervento umano, in tutta questa tecnologia rotante, mi rassicura. Mi rassicura, e mi ricorda un altro episodio dell’estate scorsa, durante la chemioterapia, mentre mi trovavo sdraiata su un altro lettino, quello del pronto soccorso dov’ero finita per un reflusso gastrico scambiato per imminente infarto.

Il ciclo di radioterapia dura pochi minuti. Li uso per un’attività rilassante che ho iniziato a praticare nell’ultimo anno: lascio scorrere i pensieri. Mi sfilano davanti in processione e io li osservo passare mantenendo su di loro uno sguardo neutro, distaccato, come se non fossero i miei pensieri: fatti che mi sono successi, persone che ho incontrato, libri che ho letto, film che ho visto, frasi che ho sentito, cose da fare, cose da non fare, idee, sentimenti, stati d’animo. Lascio tutto a pascolare, mentre io mi riposo.

Ho trasformato la mia radioterapia in un esercizio di meditazione. Potrebbe addirittura mancarmi, quando i cicli finiranno.