pinkink-series-III-1-sottovuoto

21 giorni dopo la mastectomia

Questa settimana, a Milano sono andata in treno.

Oggi, giorno di visita e medicazione, la terza dopo l’intervento.
Ieri, in viaggio, avevo ancora uno dei due drenaggi; dal 24 ottobre lo portavo con me come una piccola penitenza. Stamattina il sacchetto era pieno della mia terza settimana di versamenti – quando si dice “sbocchi di sangue”, credo si intenda anche questa possibilità, – né rossi né gialli, un colore fra l’arancio e l’ocra.

All’andata, il treno ha accumulato 110 minuti di ritardo.

Pare che a Giulianova un povero disperato stesse camminando sul binario. In attesa a San Benedetto del Tronto, ho parlato con un controllore di buonumore e dal forte accento maceratese. Mi ha raccontato, con allegra rassegnazione, che cose così accadono due o tre volte alla settimana e sono più frequenti nei prefestivi e nei cambi di stagione. Disturbi dell’umore, ho pensato: ciclotimia, distimia, nulla di irrimediabile, anch’io li patisco da anni.

In piedi sulla banchina per un paio d’ore, straziata dal prurito dei cerotti e dalle fitte di dolore, ho meditato di legarmi alle rotaie col tubo del drenaggio e far finire così la giornata del Frecciarossa 8820. Ma ho in cuore chi viaggia: molte di quelle persone stavano andando a trovare parenti, fidanzati, amanti, amici. Ognuna di loro aveva una storia che si sarebbe intrecciata con la mia, come in un romanzo di Yasmina Reza. Perché mai?

Alla visita, una dottoressa e un’infermiera mi hanno finalmente liberato dal drenaggio.

Via il sacchetto, via la pompetta celeste, “faccia un respiro profondo” e via anche il tubo.
Sono dunque passate a occuparsi della ferita sul seno. L’ho visto. Il taglio è piccolo, pulito, essenziale, perfetto. Tuttavia, uno dei punti centrali è lento a chiudersi, c’è ancora siero misto a sangue che zampilla luccicante, simile a fiotti di nettare dal cuore di una mela.

Tutte le mie ferite sono lente a guarire.

Di quelle sul corpo m’importa poco, mi preoccupano molto di più le altre, quelle invisibili di quest’anno: ci metterò tempo, non c’è terapia che possa accelerare la guarigione.

Per quella facile facile lasciata dall’intervento chirurgico, comunque, mi hanno spremuto la mammella come si fa a una vacca da latte. Non è così doloroso per chi abbia subito di recente una mastectomia e una linfoadenectomia: la sensibilità è persa quasi del tutto fino al cavo ascellare – sarà così, mi dicono, fino alla fine dei miei giorni.

Mi hanno messo sottovuoto il seno.

Mammelle come tranci di prosciutto, forme di pecorino stagionato (anche queste, al taglio, stillano una lacrima). È l’effetto del PICO, un sistema per la terapia a pressione negativa: è un piccolo dispositivo che aspira l’aria e assorbe l’essudato della ferita. Si può agganciare ai pantaloni come un cercapersone. Se ci sono problemi, vibra. Speriamo che non vibri.
In ogni caso, è quasi un mese che non posso farmi una doccia come si deve e vado avanti a spugnature, sciacquate, salviette detergenti, saponi a secco.

In treno leggo un giallo canadese.

I gialli, li leggo quando piove e quando ho bisogno di rassicurazioni. Mi tranquillizzano, perché anche i più originali hanno un margine di prevedibilità: c’è sempre qualcuno che muore ammazzato e qualcun altro che cerca il colpevole. I migliori, quelli che mi fanno stare comoda quando non sono disposta a impegnarmi, sono quelli dove chi indaga sul caso è un alcolista prossimo al pensionamento, stanco di campare, di solito divorziato, sciatto e trascurato, ma con un talento raro per decifrare la mente dell’assassino perché matto quanto lui.

Sono ingrugnata, in questi giorni, malmostosa.

I capelli stanno ricrescendo dopo la chemioterapia. Sono corti, tanto corti, abbastanza da infastidirmi quando mi incontro con la mia immagine riflessa in uno specchio, in un finestrino, in una vetrina.

Ci vuole tempo per riconoscersi, trovare un dettaglio che ci assomigli.
Ci metto tempo, io, a guarire, cambiare, scegliere, accettare, trovare, ritrovare, lasciar andare.

Ieri notte ho sognato un maremoto.

Muri spaventosi di onde si alzavano e si riversavano sulla terraferma; persone, animali, case, auto, alberi, pali della luce venivano risucchiati e sommersi. Sentivo sul petto tutto il peso della parola “ineluttabile”, mentre la massa d’acqua si rovesciava su di noi, indifesi. Insieme a tutti venivo travolta, insieme a pochi riemergevo. Sott’acqua, contavo.

Domenica scorsa, davanti a una tazza di tisana drenante, ho raccolto due interviste per il Kintsugi Project, le storie delle donne-albero iniziate con la testimonianza di Antonella. Non vedo l’ora di mettermi al lavoro. Sono tante, le storie da raccontare.

Finché ho di che scrivere, e finché posso usare le mani per farlo, o la voce per dettare, ho speranza di riprendermi da ogni mia violenta “smarginatura”, e di sopravvivere a tutto ciò di cui m’ammalo.