Giorno 1, ciclo 1
17 aprile 2023, ore 9:28
Trattamento EC (Epirubicina – Ciclofosfamide) in regime “dose-dense”
Ci voleva una camicia nuova, di quelle che prima non mi sarei mai messa addosso. Vivace, fastidiosa, consistente nella presenza di rosso su bianco – bianco di tessuto, bianco di pelle, bianco di mascherina, bianco d’ospedale, bianco di sudario, – per affidarsi ai contrasti.
Ci volevano anche calzini nuovi e giusti, ben ispirati. Per questi, ho adottato un’usanza della mia preziosa amica Mara, veterana ormai di cicli e calzini abbinati. Senza la sua presenza nella mia vita, avere il cancro sarebbe una faccenda meno spassosa di quello che è.
Perché raccontare il cancro?
Alcune persone si chiedono, a volte mi chiedono, perché io scriva di cose tanto intime e private in un posto tanto affollato e delirante come Facebook.
Le mie persone care, quelle che sono nella mia vita da più tempo, conoscono la risposta perché conoscono me: l’unica cosa che so fare, e che mi rimette a posto, l’unico istinto che non mi lascia, è scrivere per raccontare qualcosa a qualcuno. Su Facebook, su un blog, perché è semplice e immediato: non ci vuole un editor, non ci vuole un correttore di bozze, non ci vuole un editore, non ci vuole un tipografo; soprattutto, a chi scrive, non servono né prodigioso talento, né grossa fatica o tenacia.
Da quando sono diventata una paziente oncologica, però, una seconda motivazione mi si è aggiunta a quella di sempre, e questa no, non c’era da aspettarsela: la voglia di raccontare un tumore dice qualcosa sulla paura e sul modo che ognuno di noi ha di capirla e neutralizzarla, sulla tendenza a condividere, a esplodere più che implodere, a creare connessioni, a fare comunità, a cercarsi e riconoscersi fra pari; a nutrire, insomma – nonostante l’inaffidabilità naturale del genere umano al completo – un’innata fiducia verso i propri simili. Io appartengo a questa gente.
In questi giorni, dopo i miei primi post tumorali, ho ricevuto messaggi privati da persone (perlopiù donne) di cui sapevo poco o delle quali non avevo saputo più nulla: testimonianze di esperienze simili alla mia di adesso, tanti consigli pratici e inaspettate informazioni molto utili a risparmiare tempo e soldi. Grazie.
Il cancro, al momento, e per come prima della diagnosi mi si stava mettendo la vita (di traverso), mi pare una grande opportunità per me. Per osservare, conoscere e riconoscere, capire, cambiare. I cinici diranno: “Grazie al cazzo, dite tutti così quando vi ammalate”. Io dirò: “Grazie al cazzo, dite tutti così finché non vi ammalate”. E stiamo pari.
Sono le 5:24 del mattino del 18 aprile, mentre scrivo. La nausea è iniziata, lieve, subdola, promettente; lo stomaco si ingarbuglia come un elastico da sciogliere o una collana tutta da strecciare, o una matassa di capelli da sbrogliare (la mia, di matassa, l’ho tagliata e via, prima di ritrovarmela fra le mani tra pochi giorni). Non è piacevole, non è divertente, né gratificante, ma è un’opportunità per trovare nuove storie da raccontare, attingere a nuovo materiale di vita – la mia, perché è quella che conosco meglio e, secondo me, bisognerebbe scrivere solo di ciò che si conosce personalmente.
Io, le cose che nella vita vanno storte, le fotto riscrivendole a modo mio sullo spazio bianco di una pagina (o di uno status di Facebook, perché no). E le racconto ai miei simili, quando ne trovo, per mettere in circolo la speranza. La speranza, non tanto di restare vivi, ma di restare salvi, integri, illuminati dalla grazia del pensiero.