6.vita in reparto

Giorno 10 dal primo ciclo di chemioterapia

Trattamento EC (Epirubicina – Ciclofosfamide) in regime “dose-dense”, con iniezione preventiva di Pelgraz contro la neutropenia.

Emocromo di routine in reparto, e medicazione del PICC (quanto è orrendo, il buco del PICC. Ma non si dice “buco”, si dice “inserto”).

In fila per la diligente routine del paziente oncologico, ci sono altre persone con un cancro a caso. Le donne, quasi tutte ce l’hanno al seno come me. Ci guardiamo prima in testa e poi negli occhi: capelli tuoi o parrucca?

Io sono l’unica con i capelli miei, ancora.

D’altra parte, sono una novizia nella comunità, oltre che la più giovane del reparto in questo momento.
“Ci vogliono ventuno giorni dal primo ciclo di chemio, poi cadono”, mi dice una. “No, ce ne vogliono dieci, quindici”, dice un’altra. Vabbè, dico io, giorno più giorno meno.
Ci sono anche le donne col turbante. Io sarò una donna col turbante.

C’è G., invece, che non ha scelto né parrucca né turbante, ma una protesi.

“È diversa dalla parrucca, – mi spiega G., – perché la protesi è attaccata al cranio con una colla speciale, non te la può togliere nessuno. Ci ho speso tanto, – mi dice, – ma ho avuto proprio bisogno di farlo, perché per me lo shock non è stato scoprire di avere il cancro, non è stato iniziare la chemio, non sarà l’intervento: è stato perdere i miei capelli. I miei capelli erano tanti e bellissimi, folti, tutti ricci vaporosi e lunghi lunghi fino a qui! – si tocca con la mano su un fianco, – Andavo tutte le settimane dalla parrucchiera, che è mia sorella. Ci facevo quello che volevo, coi miei capelli! Erano una montagna, una massa, una capanna di capelli. Quando hanno cominciato a cadere, ci ho riempito buste per giorni e giorni, e ogni giorno piangevo”.

Allora, senza pensarci, mi viene da dirle una cosa ovvia, e cioè che i suoi capelli ricresceranno. Faccio quello, insomma, che fa chiunque non abbia (ancora) vissuto l’esperienza di perderli a causa di una chemioterapia: dire una cosa ovvia, e anche dotata di scarsa prospettiva.

Infatti, G. mi silenzia subito: “Sì, ricresceranno, certo, ma quanti anni mi ci vogliono per riaverli lunghi fino a qui? – e si ritocca il fianco con una mano, – E io che ne so, se tutti questi anni ce li ho? Quando mi sono caduti mi sono ammalata per davvero. Mi hanno detto che qua in reparto c’è lo psicologo per noi pazienti, ma io ho detto: a me non mi serve lo psicologo, mi serve la protesi. Infatti, da quando ce l’ho sto meglio”. Infatti G. sta meglio. Sorride e fa battute insieme a un’amica, D., anche lei paziente oncologica, ma il suo cancro è a un polmone.

D. fa le punture che faccio anch’io, quelle per far salire i globuli bianchi, e mi dice che se le spara da sola sulla coscia come le hanno mostrato la prima volta qui in reparto. Anche a me l’hanno mostrato la settimana scorsa alla mia prima volta, ma col cazzo che io a casa ci provo da sola.
D. dice che il dolore alle ossa dopo la puntura le dura per giorni. Io annuisco.

Ma il più bello di tutti è P. ed è fuori dal coro.

P. avrà almeno settant’anni ed è vestito come un punkabbestia di venti, sta in carrozzina ed è accompagnato dalla figlia, ha un cancro tra esofago e stomaco, ed è il più allegro di tutta la corsia.

Nella sua vita, P. si è goduto quattro interventi di bypass al cuore, due aneurismi dell’aorta addominale, e varie riparazioni di ossa rotte. Da quando fa la chemio, P. si nutre solo di cioccolato e formaggio perché il resto lo vomita.

Dice che lui chiama tutte le infermiere in base a una loro caratteristica, non ha voluto impararne i nomi. La giovane infermiera di oggi – capelli rossi, pelle bianca e lentiggini, occhi color del mare quando è mosso – si chiama Roberta, ma lui la chiama “La Roscia” e dice che è la sua preferita. Quando La Roscia lo chiama dentro per il suo emocromo, lui si affretta in carrozzina e lo sentiamo tutti quando la saluta a voce alta e gioiosa: “Amore mio!”.

A me piace, questo reparto. C’è gente sana.