È un’estate nuova, questa. È la prima estate, dopo. In questi giorni di un anno fa, ero ancora in chemioterapia. Avevo una flebite, e perciò facevo iniezioni quotidiane di eparina che mi coloravano di viola e di nero, poi un po’ di giallo. Ogni tanto, per un niente, avevo la febbre.
Ho ripreso la mia bicicletta rossa. Ho camminato al mare. I muscoli fanno male per un accenno di sforzo. Non posso stare al sole per molto tempo, la radioterapia ha indebolito la pelle. Però sto bene. Sono viva, salva, in buona parte integra – integro non è il mio seno destro, ma bello ancora: solo una gloriosa cicatrice, pelle tesa intorno.
Luglio. Trasudo sconforto.
La settimana scorsa se n’è andata via la madre del mio migliore amico, inestimabile e prodigioso custode della mia vita. Concetta aveva 72 anni e un tumore al cervello. Era soprattutto madre. A Natale preparava cannelloni, era in salute, vitale, luminosa e felice perché un figlio si era sposato da poco e l’altro si sarebbe sposato presto. Il giorno dopo, ha iniziato a dire frasi senza senso e ad addormentarsi troppo spesso, troppo profondamente. Sei mesi, è durato.
Il mio migliore amico ha seguito da vicino tutta la mia malattia, l’anno scorso. Mi ha ospitato tante volte a casa sua, a Milano, quando andavo al San Raffaele. Ha visto bene cosa fa un tumore, per due volte in poco tempo. Io me la sono scampata. Mi dispiace. Al mondo c’era più bisogno di una Concetta, che di me. Mi dispiace.
È così che va. Ci vuole poco, a essere squalificati dai giochi. E il criterio, non c’è.
Oggi impasti cannelloni e programmi, domani t’annebbi, non riesci a finire una frase comprensibile. Se ne va la dignità, se ne va la memoria; se ne vanno la vigilanza, la grazia della ragione, il vigore del sentire, il primordiale soffio vitale.
Dopo un cancro, osservi la vita delle persone vicino a te, il loro affaccendarsi quotidiano – il lavoro, la famiglia, le corse, la stanchezza, l’ansia da prestazione, i pensieri, le preoccupazioni, le ambizioni, il rumore, i progetti rimandati – e ti viene da sorridere, ma è un sorriso increspato dalla mestizia. Pensi: perché vi date tanto da fare? Perché vi date pena? Perché non state zitti un momento? Come sareste per davvero? Come sareste per davvero.
Finché non ricevi una raffica di schiaffi e giochi a scacchi con il Caso, non ti fermi. Non vedi le cose per quelle che sono. Irriproducibili. Fragili. Provvisorie. Essenziali. Ma per davvero, non per sentito dire.
«Come al solito, stai trovando delle opportunità attraverso quanto ti è successo».
È ciò che mi ha scritto oggi una conoscente che segue il blog e che ha scoperto la mia nuova rubrica su Riviera Oggi. Un’amica, invece, l’altra sera mi ha detto di persona: «Ho sempre pensato che io, se ricevessi una diagnosi di cancro, mi ammazzerei. Ma da quando leggo ciò che scrivi, penso che no, forse non mi ammazzerei».
Questo e altro, pensano di me le persone che mi frequentano poco, o che hanno di me un’idea contraffatta da ciò che scrivo. Io penso che, se potessero affacciarsi per un momento sui miei abissi, se ne ritrarrebbero spaventate e inorridite. La scrittura, architettata bene, è anche manipolazione. Ricordatevelo. Possiamo innamorarci di un libro che abbiamo letto, ma questo non significa che il suo autore, o la sua autrice, sia una persona virtuosa.
Luglio. Ripetere gli esami del sangue, fra una decina di giorni.
Marcatori tumorali, soprattutto. E il resto. A settembre, poi, mammografia all’altro seno, quello che può ancora essere compresso, ed ecografia. E una risonanza, non la facciamo? Restiamo vigili, all’erta. Vietato abbassare la guardia. Prontezza, ci vuole.
Ma io soltanto vorrei starmene così, a fumare sigarette in balcone a luglio, come una cosa appoggiata da qualche parte e scordata.